Diritto alla casa o diritto alla speculazione?

Crisi e diritto all’abitare

Più volte in questi mesi i sindacati inquilini hanno lanciato
l’allarme-casa: con i licenziamenti, la cassa integrazione, la
disoccupazione che cresce a livelli vertiginosi, cresce il numero di
persone che non riesce a pagare l’affitto, che ha un’incidenza media
sui salari del 50%, ma arriva a portar via il 70% del reddito in città
come Roma o Milano. Aumenta così la morosità, che nel 2008, secondo
l’Unione Inquilini, è cresciuta del 16% e dal gennaio 2009 ad oggi è
aumentata del 4%. Nel giro di pochi anni, dunque, la situazione sul
fronte casa è radicalmente mutata: se negli anni Novanta la maggior
parte degli sfratti era per finita locazione, oggi la prima causa di
sfratto è la morosità.

Negli ultimi cinque anni, circa 100.000 famiglie hanno perso la loro
abitazione perché non sono riuscite a pagare l’affitto, e si prevede
che nel triennio 2009/2011 altre 150.000 famiglie subiranno la stessa
sorte. Un’indagine condotta dai sindacati inquilini su un campione di
1000 famiglie sfrattate per morosità, ha rilevato che il 24% delle
famiglie ha subito la perdita del posto di lavoro del primo percettore
del reddito, nel 22% dei casi il reddito proviene da un lavoro
precario, mentre per un altro 21% il percettore è in cassa
integrazione. Il nesso tra crisi economica e crisi del diritto
all’abitare è dunque chiaro.
Analogamente a quanto sta succedendo per il lavoro, dove l’unico
intervento statale è una folle corsa alla salvaguardia delle banche e
delle grandi imprese, il Governo ha varato un Piano Casa che
difficilmente riuscirà a portare qualche vantaggio alle fasce sociali
che più stanno pagando la crisi di questi mesi.

Le nuove norme infatti non riguardano minimamente chi non possiede una
casa e nemmeno il cosiddetto “ceto medio” che, per la stragrande
maggioranza, ha una casa di proprietà in condominio, ma costituiscono
piuttosto un tentativo, già rivelatosi tragicamente errato negli Stati
Uniti, di legare la ripresa economica al mercato immobiliare. L’idea è
insomma quella di convogliare i risparmi di tante famiglie nelle tasche
di quelle imprese edili che, tra mancato rispetto delle norme di
costruzione più elementari e sfruttamento del lavoro nero,
possibilmente offerto dai clandestini, si sono guadagnate le prime
pagine dei giornali all’indomani del terremoto in Abruzzo.

Grazie alla deregolamentazione di una materia già
decisamente povera di regole, l’unico “guadagno” per la collettività
saranno la cementificazione indiscriminata e lo scempio del patrimonio
architettonico. Infine non solo questo decreto non fa fronte
all’urgenza di migliaia di persone sotto sfratto o in attesa di un
alloggio popolare, ma comporta addirittura un taglio dei già esigui
fondi che il Governo Prodi aveva stanziato alle Regioni per le
politiche abitative: da 550 milioni di euro a 100.

Socializzare le perdite, privatizzare i profitti

E come si pensa di fronteggiare l’urgenza di
migliaia di persone sotto sfratto o in attesa di un alloggio popolare?
A fronte della carenza di alloggi e dell’aumento degli sfratti, lo
Stato svende, o meglio tenta di svendere, il patrimonio immobiliare
pubblico: dal 2000, infatti, tutte le numerose proprietà (circa 25mila
immobili) degli enti pubblici (come l’INPS) sono state cedute a S.C.I.P
(Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici S.r.l.), con il compito di
immetterle sul mercato immobiliare.

Il risultato sono state centinaia di aste deserte, con un conseguente
ribasso dei prezzi e affari d’oro per i palazzinari, che si sono
ritrovati in mano immobili di pregio a prezzi stracciati. La maggior
parte degli stabili, quella meno succulenta per gli speculatori, è
comunque rimasta invenduta, tanto che recentemente il ministro Tremonti
ha riacquisito il patrimonio affidato a S.C.I.P., con uno spreco di
diversi milioni di euro.
Ma dagli errori non si impara, e così il ministro Brunetta, sempre
nell’ambito del Piano Casa, ha proposto, con il solito trionfalismo che
lo contraddistingue, una maxi-vendita di case popolari, quando le
vendite già avviate in alcune regioni (tra cui la Toscana) hanno già
chiaramente dimostrato la loro inefficacia: l’Unione Inquilini ha
calcolato che, su ogni quattro case vendute, si ricavano i soldi per
costruirne solo una nuova.

Le politiche regionali: privatizzare i diritti

Sul versante regionale, le cose non sembrano andare
meglio. Per ora le bozze della legge sulle case popolari che
l’assessore regionale alla casa Eugenio Baronti (Prc) sta preparando,
riguardano l’aumento dei canoni di affitto, la stipula di contratti non
più a tempo indeterminato ma con scadenza quadriennale, una normativa
più severa in caso di morosità, l’accentramento della gestione delle
case popolari su tre società per azioni (attualmente ce ne sono 11 sul
territorio regionale). Queste linee di cambiamento sembrano
perfettamente coerenti con la gestione privatistica del patrimonio
residenziale pubblico, affidata a società per azioni, che a fine anno
devono far quadrare il loro bilancio.

A Pisa, solo per fare un esempio, dal 2004 il patrimonio residenziale
pubblico è gestito dall’Apes che, cosa mai accaduta prima, ha dato il
via ad una triste serie di sfratti da case popolari per morosità: a chi
si dovrebbe rivolgere allora chi non ce la fa neppure a pagare un
affitto calmierato come quello per le case popolari?

Le politiche comunali: tra retorica e cementificazione

A inizio aprile 2009 la Regione ha promesso lo
stanziamento di 130 milioni di euro per l’edilizia residenziale
pubblica. Anche ammesso che questi fondi, che vengono promessi da anni,
siano effettivamente stanziati, vediamo come potrebbero essere
utilizzati. Il comune di Pisa, al quale spetterebbero 23 milioni di
euro, ha elaborato un piano che prevede 3 livelli: la ristrutturazione
del patrimonio esistente (114 alloggi in tutta la provincia), la
costruzione di 116 nuove abitazioni e l’acquisto da privati di 61
alloggi. Senza contare che se questo piano fosse realizzato con
successo, a Pisa riuscirebbe a garantire 101 nuovi alloggi popolari, a
fronte di una graduatoria in cui sono presenti ben 1199 richieste, ci
si chiede se sarà davvero possibile tutta questa annunciata solerzia.

Ad oggi, come denuncia l’Unione Inquilini, i tempi di costruzione sono
stati geologici (i 31 alloggi di via Norvegia che dovevano essere
pronti nel 2006 sono ancora in costruzione), mentre le ristrutturazioni
sono talmente lente che si preferisce demolire (vedi le case popolari
di Sant’Ermete). Inoltre, almeno a Pisa, i privati non hanno alcuna
intenzione di vendere, come dimostra il fatto che l’offerta di acquisto
di immobili da parte del Comune è andata praticamente deserta. Ma
perché comprare? Il Comune avrebbe ben altri strumenti per recuperare
abitazioni come la requisizione delle grandi proprietà sfitte (ad
esempio l’ex-Enel o palazzo Pampana), l’obbligo all’affitto per coloro
che tengono vuote le abitazioni da anni, l’utilizzo di quelle proprietà
comunali che già esistono, ma che invece sono messe in vendita.

Una struttura come la Mattonaia riassume in un unico esempio tutti i
problemi menzionati: la costruzione, finanziata con fondi per
l’edilizia popolare, è durata più di vent’anni (ancora oggi la
struttura non è stata completata), ma da anni alcuni appartamenti
risultano pronti. Piuttosto che utilizzarli per far fronte
all’emergenza abitativa si preferisce però lasciarli all’incuria e al
degrado perché l’intera struttura è in vendita, senza che al momento ci
siano prospettive concrete di trovare un compratore.

Come si configureranno, infine, gli interventi in
materia di urbanistica, progettati dal Comune? Se il modello è ciò che
è successo, e sta succedendo a Putignano, e ciò di cui si parla
rispetto al Cep, dove le case popolari andranno a sostituire gli
impianti sportivi, contribuendo a peggiorare ulteriormente la
situazione di un quartiere che è già un dormitorio, c’è di che
preoccuparsi. Già a questo livello di indagine, sorgono dunque seri
dubbi a proposito della buona fede del piano del Comune, dubbi che si
acuiscono se si va ad analizzare il contesto complessivo in cui il
piano si inserisce, quello di una vera e propria rivoluzione
urbanistica della città.

La variante al piano regolatore che la Giunta ha discusso in questi
giorni dovrebbe portare alla costruzione di più di 2000 nuovi alloggi,
a cui sono da aggiungere altri, enormi, interventi come quelli previsti
per la zona dell’ex Santa Chiara, o quelli relativi alla dismissione
delle caserme nel centro cittadino. A fronte di una cementificazione di
proporzioni mostruose, la percentuale di case effettivamente destinate
ad utilizzo sociale è veramente esigua. La maggior parte degli
interventi che cambieranno il volto di Pisa hanno a che fare con la
costruzione di appartamenti destinati ad uso privato, e soprattutto di
strutture ricettive e commerciali: alberghi, negozi e simili.

È esemplare a questo proposito il progetto che interessa l’ex-Santa
Chiara e la Piazza dei Miracoli: è previsto l’abbattimento di circa
quindici edifici dell’ex-ospedale e la costruzione di strutture
alberghiere e commerciali che si troveranno in un’area che, vista la
collocazione a fianco di una delle piazze più famose del mondo e
l’intervento di un architetto di fama nella riqualificazione, promette
profitti inimmaginabili.
Sorge insomma il sospetto che la magniloquente retorica con cui sono
stati presentati gli interventi descritti, nasconda la volontà di
favorire le lobby del mattone piuttosto che le famiglie bisognose di
casa, le grandi aziende e le grandi multinazionali piuttosto che i
semplici cittadini, proprio come pare sia avvenuto per il “caso” Saint
Gobain.

Progetto PrendoCasa