Guardiamo al 12 aprile come un importante contributo alle lotte. Un momento in cui abbiamo misurato una crescita di fiducia, un guadagno reciproco dentro il rischio di una direzione comune di rottura e incompatibilità.
Temporalità e autonomia
La giornata del 12 aprile ha visto scendere in piazza decine di migliaia di persone, in continuità con un percorso che dalla scorsa estate ha rappresentato l’unica proposta ricompositiva su scala nazionale, nel deserto politico e sociale di un paese che non ha ancora trovato una soddisfacente risposta dal basso a cinque anni di crisi conclamata e a tre anni dall’imposizione di misure vieppiù antipopolari e classiste contro vecchi e nuovi poveri, precari/e, giovani, migranti… insomma quel multiverso mondo che oggi definisce la condizione dei proletari e delle proletarie. Quando affermiamo questo semplice e incontestabile dato di fatto non intendiamo sminuire o negare l’esistenza di un proliferare di percorsi locali, lotte, resistenze a volte anche molto generose che si articolano tra mondo del lavoro, lotte territoriali e percorsi di riappropriazione. Nessuna di esse è però riuscita, fino ad oggi, a indicare un percorso comune e fornire un esempio di riferimento o traino.
Il 12 aprile è il tentativo di rendere metodo un lavoro politico conflittuale con una prospettiva di massa. In quest’ottica ha senso ragionare del rapporto tra evento e processo, tra scadenza e continuità: al di là della infantile ed ipocrita constatazione delle differenza numerica con il 19 ottobre (a proposito al No Monti day quanti ce ne stavano?), il 12 aprile rinnova alcune condizioni soggettive per le lotte sui territori. Certo, la molecolarità delle esperienze di lotta sui territori di per sé non costituisce LA proposta politica all’altezza dell’attacco complessivo della controparte. È altresì vero che sono proprio queste esperienze a rafforzare e a far maturare in autonomia appuntamenti di mobilitazione, stringendo nuovi legami e radicalizzando uno spazio di alterità politica. Senza queste esperienze non c’è presupposto di una proposta di cambiamento incisiva che non guardi al terreno istituzionale e della rappresentanza.
La modalità di costruzione politica di questi eventi scarta la ritualità dello scadenzismo della stagione dei contro-vertici perché misura la propria politicità nell’accumulo di forza sociale dei territori; tenta lo sviluppo e la riproduzione allargata di comportamenti ed indicazioni nel verso della conflittualità. Ciò che si conferma è la capacità di convocazione autonoma di mobilitazione sociale, di condensazione delle lotte territoriali, dell’emersione sul piano pubblico, organizzativo e politico dei soggetti, a oggi, dentro e contro le ipotesi di sviluppo di capitale.
E’ pensabile un 19 ottobre senza il processo di crescita conflittuale e politica radicato nello Tsunami Tour? E’ immaginabile un 12 aprile senza il fiorire dei comitati di lotta territoriali, dalla più piccola provincia alla grande metropoli? Senza la lenta ma incessante progressione dei comitati di lotta per la casa in spazi per l’organizzazione del lavoro e del non lavoro, del reddito e dei servizi avvenuto in questi mesi?
Fattore attivo di questo processo, timore di questure e ceti politici, sono nuove avanguardie sociali che crescono proporzionalmente alla dimensione qualitativa dei conflitti. Il 12 aprile segna un passo in avanti nella partecipazione e nella disponibilità di segmenti di proletariato a pensarsi come soggetto conflittuale. Al netto dei tentativi naufragati dei media mainstream di dividere buoni e cattivi e lasciandoci alle spalle chi imperterrito ha continuato a gufare trappoloni; diciamo che certo non saremmo riusciti a tenere Piazza Barberini ma un intero corteo ha accolto e fatto propria la radicalità della giornata. E non si dica che “il lavoro” e la precarietà non avessero centralità. Dove è andato ad assediare e a confliggere il movimento? Al Ministero del Welfare e del Lavoro proprietà di Lega Coop, mostrando così la maturità politica di una piazza disponibile a recepire e valorizzare, per gli interessi politici collettivi, le indicazioni di lotta che emergono dalle vertenze conflittuali, ormai non più solo dei facchini, e dagli abiti sociali di rifiuto ai grandi eventi, intesi non solo come spreco di denaro pubblico, ma come esperimenti di forme di sfruttamento ancora più radicali.
Il resto sono chiacchiere e opportunismo. C’è chi ha scelto di non starsene a guardare e di rischiare, e c’è chi – subodorato che il cambio di fase imponeva uno scenario più difficile – si è sfilato senza ammetterlo, restando con un piede dentro e uno fuori, senza impegni, pronti a salire sul carro del vincitore quando va bene o sullo scranno dei giudici quando non tutto fila liscio.
Ci si costruisce allora una rappresentazione di comodo e si dà una verniciatura di analisi politica per spiegare limiti che sono non solo soggettivi (della classe nella sua totalità) ma oggettive difficoltà di transizione tra due momenti della piatta vita politica del paese. Tutti sappiamo benissimo come sono andate le cose. Dire che il limite è il non aver indicato l’Unione Europea come IL Nemico contro cui schierare le ire degli sfruttati e delle sfruttate è una falsità (oltreché una scusa di comodo), perché il primo punto del manifesto di convocazione della manifestazione riportava in grande la scritta “No Trojka”, di cui l’Ue è una delle articolazioni (forse che la Banca Centrale e l’Fmi non sono anch’esse istituzioni determinanti nello stilare quelle misure di austerità che ci stanno impoverendo?).
Prima la classe
Una domanda molto semplice mette immediatamente fuori gioco i sapientoni che in questi giorni giudicano dall’alto il preteso fallimento della giornata di sabato: cosa hanno da dire all’eterogenea composizione del 12 aprile questi odierni custodi di un che fare immobilizzato nel tempo? Niente! Ripropongono la classica doppia articolazione di partito e sindacato, senza un aggiornamento, una correzione, un ripensamento… come se la classe operaia è sempre quella è non aspettasse altro che la riedizione del “vero” partito comunista (tra l’altro in folta quanto innocua compagnia).
Dal canto nostro, cerchiamo invece di indagare e privilegiare quei comportamenti del corpo sociale che esprimono oggi insofferenza per tradursi magari domani in alterità. Vi leggiamo il prodursi di primi fermenti antagonisti, la cui valenza politica non sta nel grado di coscienza esplicita quanto nell’intrinsecità di rifiuto e ribellione qualie mbrioni di sviluppi futuri.
Verremmo pur tacciati di nostalgico “operaismo” ma continuiamo a pensare al lavoro politico non solo come un’analisi, quantunque accurata, delle forme del dominio e delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico. L’antagonismo al capitale non sta nel tradurre in fatto di coscienza queste contraddizioni, ma attiene piuttosto all’orizzonte di crescita di un soggetto-contro; ovvero alla continua problematizzazione della separatezza tra organizzazione politica e comportamenti sociali incompatibili. La maturazione dei processi conflittuali in movimento, lo sviluppo antagonista di una ri-composizione, non segue linearmente al frontismo dei soggetti politici, né obbedisce alle “giuste” parole d’ordine, dedotte dalla forma del dominio capitalista (Unione Europea).
In sintesi: il problema della rottura rivoluzionaria è quello relativo allo sviluppo di una soggettività incompatibile, non di quanto sia mirata la denuncia di una controparte sistemica.
Qualcuno che sul significato politico e storico delle sconfitte e delle vittorie ha ragionato a lungo scriveva un tempo che “il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario”.
L’emergere a livello pubblico e mediatico della violenza della polizia segnala uno squarcio nella tenuta del discorso della controparte. L’estrema politicità e profondità sociale dello scontro in atto superano le rappresentazioni che prendono a pretesto il colore delle mantelline (blu o black). Se il Prefetto Pecoraro è costretto a mostrarsi possibilista sull’introduzione dei numeri identificativi per i reparti di polizia, questo succede per la necessità di neutralizzare la portata di questo scontro spostando la contraddizione più in là: niente più mele marce ma niente più incompatibilità sociale. All’opposto per noi 12 aprile e 16 aprile costituiscono passaggi in avanti per la legittimità del conflitto, data proprio dalla capacità di contrapporsi per ampie fette sociali.
Figure sociali: chi lotta per la casa?
Anche grazie al 12 aprile ci stiamo lasciando dietro un’impostazione della politica come testimonianza separata dalla materialità dei rapporti sociali. La “piazza” romana, a partire da una capacità di cooperazione (logistica, sociale, comunicativa e quindi politica) ha generato conflitto sociale perché la lotta per la casa è diventata uno spazio politico di contrapposizione, e non una semplice sommatoria di vertenze. Qui non si tratta di erigere a paladina della rivoluzione una lotta sulle altre, ma di individuare caratteri conflittuali potenzialmente riproducibili su altri terreni.
La lotta per la casa nell’ultimo anno e mezzo sta assumendo questi caratteri di riproducibilità, anche a partire da una contraddizione importante a livello sistemico (do you remember subprime?), soprattutto perché i protagonisti di quella lotta non si sono accontentati di ritagliarsi uno spazio per la gestione di questa vertenza. Bensì hanno colto la necessità di mettere in relazione “il soddisfacimento autorganizzato dei bisogni” con la crescita del movimento. Non a caso oggi nessuna vertenza (da quelle legate al territorio a quelle del cosiddetto “mondo del lavoro”) riesce a portare a casa alcun risultato senza porsi, concretamente e politicamente, in una posizione conflittuale. E quando ci riferiamo a questo, non intendiamo la semplice enunciazione dei NO sul proprio sito d’informazione, ma alla capacità di radicamento di un progetto antagonista.
Per questo – contro chi ci vede un limite – scorgiamo una ricchezza, ancora da sviluppare, nello snodo della lotta sulla casa. Occupazioni e resistenze agli sgomberi, picchetti anti-sfratto e anti-pignoramento, sportelli e spazi per la riappropriazione, blocchi e autoriduzioni della Grande Distribuzione Organizzata: la mobilitazione per l’abitare dignitoso ha varcato il confine dell’emergenza sociale o dell’autoreferenzialità politica, esprimendo – non più solo in tendenza – spazi ampi di politicizzazione per diverse generazioni sociali. Giovani precari e disoccupati, migranti e figure dell’imprenditorialità in fallimento, non di rado incrociando la specificità femminile, rappresentano per noi anche dal punto di vista teorico oltre che nel nostro vissuto, le nuove storie del proletariato in formazione… altro che marginalità sociale! Non a caso si rintracciano qui dentro gli odierni meccanismi di accumulazione e valorizzazione tramite il sistema del debito che investe, travolge e scompone lo spazio della riproduzione sociale. Le lotte per la casa possono, non meccanicamente, situarsi all’incrocio con una miriade di altri nodi della proletarietà da ricomporre. D’altra parte, al di là dei tifosi del lavorismo, cos’è oggi la condizione salariale senza un ragionamento sull’indebitamento complessivo della vita, laddove la forma del lavoro vivo è inscindibile dalla dimensione sociale?
Sulla strada di questo percorso si approfondisce il solco tra ceto politico e soggettività di classe disposte a confliggere. Questa polarizzazione acuisce la distanza col sistema della rappresentanza e della delega politica, nel mentre prova a darsi i propri strumenti di rappresentazione, di costituzione di discorso e di riproduzione di pratiche sociali incompatibili. La sfida lanciata è quella della costruzione di una militanza politica e sociale su più piani: dall’essere riferimento nei contesti al porre obiettivi e conseguire risultati che accrescano la propria forza sociale e la propria appartenenza politica.
L’accusa di confusione sulle parole d’ordine della giornata del #12A (Job Act, piano casa, governo Renzi, troika) è la miopia di quei soggetti non abituati a verificare le proprie ambizioni di progetto in relazione alle esigenze della soggettività in lotta. La politicità del Piano casa di Renzi e dell’Articolo 5 – vero e proprio dispositivo politico di misurazione dei rapporti di forza in campo – invece aggrediscono direttamente le rigidità dei processi reali di mobilitazione. A conferma di ciò, lungi dall’attestarsi sulla spettacolarizzazione dell’evento, il 12 aprile è continuato nella resistenza alla Montagnola del 16. Piuttosto che disquisire su salite e discese giocando a novelli Sun Tzu, il ragionamento politico va concentrato sulla profondità dell’attacco che i movimenti oggi hanno posto al sistema della rendita costringendolo a reagire e a moltiplicare i fronti dello scontro.
Prospettive
L’accelerazione renziana è un tentativo di catturare e neutralizzare gli umori anti-austerity ed anti-politici cresciuti nell’ultimo anno. Se il 12 aprile ha avuto il merito di mostrare tutte le contraddizioni della politica dell’effimero del governo, riportando al centro la questione dei bisogni sociali e il loro potenziale di rottura, sicuramente non possiamo attestarci soltanto su quanto abbiamo fin qui prodotto. Si pone il problema di individuare non tanto le figure centrali dei rapporti produttivi quanto, in una fase di austerità espansiva, i contesti e le soggettività dell’esproprio.
Le rigidità prodotte sul piano degli spazi di riappropriazione e della resistenza sociale vanno intensificate e allargate individuando nuove possibilità di frattura di questo modello sociale fondato su indebitamento e precarietà. Le nuove misure contenute nel Decreto Economico Finanziario, assieme al Job Act, declinano a senso unico tagli alla spesa pubblica ed al welfare sociale, di svalutazione del lavoro, indebolimento progressivo della contrattazione collettiva, precarizzazione del lavoro, contenimento dei salari, tutti fattori che assieme deprimono la domanda interna, abbassano la crescita, riducono l’occupazione ed accrescono il debito.
Se la finanziarizzazione e una più spregiudicata strategia di accumulazione basata sul modello Electrolux-Marchionne rappresentano le linee di ristrutturazione sistemica, da parte nostra questo investimento sulla produttività di capitale non può che evidenziare nuovi spazi di ostilità da costruire. Aumentare il nostro “costo sociale”, far pesare sul piatto della bilancia dei rapporti sociali la nostra indisponibilità alla sottomissione, delinea in estrema sintesi alcuni nodi del progetto antagonista. Se il welfare si configura sempre più come dispositivo di indebitamento e ricatto sociale, scommettere sull’ambivalenza dell’attuale composizione precaria giovanile può significare iniziare a praticare forme più durature di riappropriazione di servizi e di valorizzazione altra delle proprie capacità. Una condizione, quella del precariato giovanile, che tra bolla formativa e disoccupazione può iniziare a interrogarsi su come e quali forme di vita soddisfino i propri bisogni, nell’opposizione ad un sistema di legalità tradotto sempre più in pratiche di riscossione e monetizzazione di ciò che è necessario per vivere.
L’11 luglio a Torino, in occasione del Summit Europeo sulla disoccupazione giovanile, sarà un ulteriore appuntamento da costruire all’insegna di nuovi spazi di politicizzazione conflittuale. Non vogliamo rieditare contro-vertici già visti né sfilate di ceti politici. Non si tratta solo di chiamare a raccolta i nostri quanto di far convergere tutti quelli e quelle che stanno pagando la crisi ma mandano precisi segnali di non volerlo più fare. C’impegeneremo a moltiplicare i fronti…