I movimenti che si sono dati appuntamento a Roma, provenienti da diverse esperienze di lotta e da diverse parti d’Italia, hanno condotto la prima manifestazione della primavera all’attacco del governo Renzi. Una manifestazione di 30.000 persone ha attraversato la città e si è diretta verso i ministeri responsabili delle politiche dei tagli al welfare e del minacciato ulteriore attacco alle garanzie minime sul lavoro per la mano d’opera precaria del nostro paese, attuando senza paura comportamenti che sono in linea totale con il sentire comune della maggioranza della popolazione italiana. Un corteo partito sotto il buon auspicio del Tango Down di Anonymous al sito di Matteo Renzi; e i suoi numeri, significativi, non ci faranno fermare neanche per un istante nella lotta quotidiana e ramificata sul territorio – la più importante – per la penetrazione reale nel tessuto sociale del paese; una penetrazione che i movimenti per il diritto all’abitare, contro le nocività ambientali e le grandi opere, per la riappropriazione di tempi e spazi metropolitani stanno rappresentando di mese in mese, in modo lento ma finalmente concreto.
L’evidenza di una diffusa disponibilità giovanile a mobilitarsi e a scendere in piazza, come hanno dimostrato anche i numerosi pullman arrivati stamattina nella capitale, non può esimerci dal ribadire quanto la ricerca di tappe di verifica, e se possibile di attacco massificato alle istituzioni, non debba né possa cedere a qualsiasi tentazione di scadenzismo. Ma il dato che ci preme sottolineare è la continuità che questa mobilitazione determina sia sul dato sociale, che su quello politico: Roma, ormai lo sappiamo, non è più la città che deve rimanere “intatta”, il luogo dove ogni appuntamento nazionale deve sfilare disciplinato e dove gli auspici dei questori di turno debbano venire, di buona o di malavoglia, rispettati. Ancora una volta i movimenti (romani in primis) hanno saputo indicare agli sfruttati e agli espropriati della loro città e di questo paese che è possibile passare dalle parole ai fatti, dagli sfoghi al bar al progetto; e che il progetto di chi vuole cambiare è sempre un progetto d’attacco. Un attacco che non può non essere indirizzato al centro istituzionale e politico rappresentato dal governo. Un attacco che, proprio perché politico, non potrà che approfondire sempre più il suo essere al riparo da possibili rapporti di mediazione.
Attacco in questo caso “velleitario”, secondo qualche giornalista. Un “assalto”, quello al ministero del Lavoro (preceduto da lanci di oggetti e manifestazioni di rabbia anche contro altri ministeri), che è stato impedito e arginato senza imprevisti dalle forze dell’ordine, ci dicono (naturalmente tacendo i soliti episodi di accanimento sulle persone inermi e su chi era a terra: approfittiamo per portare la nostra totale solidarietà a tutti i feriti e i fermati). Lo sappiamo: non siamo in grado di sbaragliare un dispositivo enorme di agenti ben armati e invadere i palazzi. Ciononostante, se è sempre questo il desiderio futuro cui ogni nostro tentativo allude, la rottura dei divieti di polizia è l’unica pratica concreta e immediata in grado di ricomporre i soggetti sociali sul piano della mobilitazione nello spazio metropolitano contemporaneo; e di farlo non attorno a toni lamentosi buoni forse per legittimare una nuova lista alle europee, o per accontentare le goffe velleità para-sindacali di chi pensa unicamente ad ìaumentare le proprie tessere, ma verso il segnale che la parte espropriata del paese è capace di agire e aggregarsi per agire. La soggettività è in corso di formazione e in divenire, e neanche i rapporti di forza sulla piazza devono essere concepiti come immodificabili ed eterni. Molto resta ancora da fare sul terreno dell’autodifesa e dell’organizzazione di piazza, ma il percorso è stato indicato.
Il sistema informativo mainstream ha saputo confezionare anche stavolta, del resto, le sue verità già scritte il giorno prima, copiate dalla precedente manifestazione: la condanna della violenza di piazza e le astruserie sui gruppetti organizzati che prendono in ostaggio i cortei. Un disco rotto che da Rai3 a Rete4, da La7 a SkyTg24, propina una rappresentazione, come sempre, ridicola e fasulla; non sono i “gruppi” che si organizzano: i movimenti sanno organizzarsi! E lo faranno, speriamo, sempre meglio e sempre più con il passare del tempo. I ribelli con le maschere di anonymous, con i caschi, le bombe-carta e magari anche le molotov piacciono tanto, del resto, se immortalati dalle telecamere mentre attaccano ministeri e polizia in Ucraina o in Argentina; piacciono un po’ anche se agiscono in Turchia, meno se compaiono in Brasile o in Grecia, ma per quell’accozzaglia di ipocriti che si nascondono oggi sotto la nobile dicitura di “giornalisti” (con l’eccezione di chi lavora per testate e piattaforme indipendenti) ciò che non deve mai accadere è che le stesse pratiche osannate a Kiev o a Buenos Aires si trasformino, in forme e contesti tra loro diversi, in genuina rabbia italiana.
Un gioco di menzogne e voltafaccia interessati così palese, crediamo, da riuscire sempre meno a convincere lettori e telespettatori che, grazie alla scelta di obiettivi politici comprensibili da parte nostra, tendono sovente (anche con l’ausilio della rete) a costruirsi narrazioni autonome degli eventi. Menzogne e voltafaccia giornalistici fabbricati in tandem con la polizia che, trattando i grandi eventi di protesta come annunci di apocalisse, decretando la perquisizione dei pullman dei manifestanti e il loro blocco per creare tensione, facendo pressioni sui negozianti affinché chiudano il giorno del corteo, tentano di presentare l’assedio ai palazzi come fosse un assedio alla città. Sulla stessa onda dei poliziotti sono personaggi patetici come il sindaco di Roma Marino che, anziché preoccuparsi del debito che la sua istituzione continua ad accumulare sul groppone di tutti i romani, si abbandona a commenti sulla violenza e sui “danni alla città” che mostrano la sua completa continuità culturale – e perciò sostanziale – con il vecchio sindaco Alemanno (se mai qualcuno avesse avuto dei dubbi e qualcuno, in effetti – anche a Roma – rischia sempre di averne).
Noi sappiamo che la violenza non è il tentativo di assaltare un ministero, ma l’assalto dei ministeri ai nostri interessi sociali, alle nostre speranze di liberazione e di cambiamento, alle nostre vite concrete. Tutto ciò che i rapporti sociali esistenti determinano, difesi e imposti dal complesso dell’apparato istituzionale, è salubre soltanto quando è conflittuale. Tutto il resto sono chiacchiere morte e tiritere ipocrite che da molto tempo non siamo più disponibili ad ascoltare.